Un anno fa oggi scrissi un “editoriale” sul grande disastro ecologico che colpì la Brianza nel luglio del 1976. Purtroppo, dissi, che mancavano le immagini per testimoniare ciò che avevo visto quarant’anni fa in quel maledetto caldo luglio. Riprendo oggi quel “corsivo” con una buona notizia, parte dei negativi di quelle foto in bianco e nero, un po’ ammuffiti, sono stati recuperati e presto magari li ripubblicheremo, per buona memoria di tutti i brianzoli.
Era il giorno 17, un sabato, una settimana esatta dopo la fuoruscita di una nube sospetta dallo stabilimento ICMESA, al confine tra Meda e Seveso, quando squillò il telefono nel negozio fotografico presso il quale davo una mano come “ragazzo di bottega”. Allora quasi tutti gli studenti d’estate cercavano d’ impiegare il loro tempo in qualcosa di utile, magari per guadagnarsi qualche liretta e togliersi qualche sfizio senza pesare sulle tasche dei genitori. Nel mio piccolo, volevo apprendere l’arte fotografica e avevo trovato disponibilità presso il Nobilfoto Studio di via Rota 60 a Monza.
Era il primo pomeriggio e non avevamo ancora aperto la saracinesca. Giancarlo Marini, il titolare, stava lavorando in camera oscura per stampare le foto dei clienti. A quei tempi non esistevano le facili digitali. Si scattavano foto durante le vacanze estive, le feste comandate e i compleanni con la classica macchinetta, che, quando andava bene, era una reflex, il più delle volte un’istantanea cartonata della Kodak. E poi di corsa si portava il rullino dal fotografo per far sviluppare il negativo e stampare le foto, con l’ansia di vedere com’erano venute.
Giancarlo alzò la cornetta del grigio apparecchio SIP. Lo vidi tentennare. Cercava di capire di cosa si trattava prima di dare una risposta. Dall’altra parte c’era un redattore dell’agenzia internazionale AP Associated Press, sede di Milano.
“Non tanto distante da voi, a Seveso in Brianza, una settimana fa una strana nube tossica è uscita da uno stabilimento chimico – diceva il giornalista – Oggi sappiamo che, dopo aver respirato quella roba, c’è gente che è stata molto male e alcuni sono finiti all’ospedale. Stiamo cercando il nostro corrispondente da Monza ma non è disponibile. Potete darci una mano? Dovreste fare un salto laggiù e scattare qualche foto per documentare la vicenda”.
I giornali ormai erano sul “chi vive”, perché si stava spargendo già voce che il fatto era grave.
Giancarlo chiese qualche minuto di tempo per decidere. Nel contempo ci accertammo che l’amico Erminio Ferrari, reporter ufficiale dell’AP, era in trasferta per un Gran Premio di Formula Uno; credo in Inghilterra. Marini mi chiese se avevo voglia di seguirlo e io, pieno di giovanile curiosità, non esitai. Chiamammo Milano per dare l’Ok e partimmo all’avventura verso quella Brianza che poi si sarebbe rivelata “velenosa”.
Quando arrivammo sul posto ci rendemmo subito conto che la vicenda era più grossa di noi. Andammo a suonare il campanello dell’ICMESA e ci risposte titubante il custode. L’unico rimasto ancora in azienda in quel sabato pomeriggio.
“Venite, venite – ci disse evidentemente spaventato – la nuvola tossica è venuta fuori da li” e ci indicò un grande cilindrone metallico, brutto a vedersi, che incuteva davvero un certo timore. Lo chiamavano “reattore”. Non era nucleare, ma aveva comunque generato un reazione micidiale. Scattammo qualche foto dentro e fuori l’azienda. Poi il custode ci disse che all’ospedale di Mariano Comense erano state ricoverate in settimana alcune persone che avevano accusato dei disturbi dopo aver respirato quella robaccia. In particolare c’erano alcuni bimbi, evidentemente più sensibili al tossico.
Andammo al nosocomio e con molta circospezione cercammo di accreditarci per fare qualche scatto. Allora c’erano meno problemi di privacy e di protezione dei minori rispetto ad oggi. Valeva però sempre il buon senso e l’etica professionale. Le carte deontologiche della professione giornalistica non erano ancora state scritte, ma giornalisti e reporter avevano un grande rispetto del prossimo e dell’altrui libertà. Quando poi c’erano di mezzo i minori non si scherzava per niente.
Chiedemmo il consenso ai medici e ai parenti e scattammo qualche immagine: soggetto preferito un bellissimo bimbo che in mezzo al lettone dell’ospedale si lamentava cercando di toccarsi il viso che manifestava un colorito rossastro con numerose bolle in evidenza. Ci spiegarono che si trattava di una reazione allergica della pelle investita dal tossico. Esattamente era cloracne, una violenta dermatosi provocata dal cloro e dai suoi derivati. In realtà poco più tardi venimmo a sapere che nel reattore, non controllato, si era generata una reazione che aveva prodotto diossina, nome comune del terribile TCDD. Noi c’eravamo stati a due passi.
Materiale fotografico alla mano, corremmo a Milano alla sede regionale dell’Associated Press. Gli scatti vennero acquistati a poche lire. Per noi però era una grande soddisfazione. Il giorno dopo infatti sui giornali di mezzo mondo venne pubblicata la foto del bimbo di Mariano siglata AP. Noi, soddisfatti, sapevamo che era la nostra. Un’immagine che diventò il simbolo di quella tragedia le cui reali dimensioni si capirono man mano nelle settimane successive, quando per più volte ritornammo sul posto per altri servizi, mandati sempre dall’AP che ormai ci aveva nominati suoi reporter per il caso.
Andammo avanti indietro per più di un mese vedendone di tutti i colori: vegetali rinsecchiti, animali morti o abbattuti, gente costretta ad abbandonare la propria abitazione investita dalla nube tossica, persone ricoverate e disperate, che volevano sapere e alle quali ben poco veniva detto. Solo otto giorni dopo essere stati colpiti da quell’odore acre, dal bruciore sulla pelle e dall’infiammazione agli occhi si iniziò a parlare di veleno, di Diossina. Poi comparvero i bonificatori con le tute bianche ermetiche, chiuse total body, senza lasciar spazio manco agli occhi. Sembravano dei fantasmi che si aggiravamo in quella zona resa deserta cercando di capire dove la nuvola era andata a cadere. C’era pure in giro qualche sciacallo fetente che, approfittando delle case, per lo più villette, lasciate incustodite, cercava di infilarsi per rubare ciò che trovava. Le forze dell’ordine controllavano tutte le strade di accesso all’area colpita, tra Seveso, Meda, Desio e Cesano Maderno.
Alcune donne gravide, spaventate dalle brutte notizie che man mano venivano a galla, chiesero di abortire per il terrore di mettere al mondo bimbi deformati dalla Diossina. Si acconsentì all’aborto terapeutico a chi ne faceva richiesta. Il dibattito che ne scaturì assunse presto i tratti demagogici della becera politica perché l’aborto in Italia, salvo alcune deroghe, allora era proibito.
Un allora giovane politicante, poi diventato famoso, fece ferro e fuoco: anziché sostenere e accudire le donne terrorizzate dagli eventi con cristiano amore, pensò bene di criticare aspramente la loro scelta, con altrettanto cristiano integralismo, con tanto di interviste in Tv nelle quale le signore in maternità vennero addirittura additate come “povere sciagurate”. La sciagura purtroppo fu ben altra, tanto che ancora oggi quanto accaduto a Seveso è oggetto di analisi e ricerche.
Verso la fine di agosto del ’76 il nostro compito si esaurì. Avevamo fatto migliaia di scatti, rullini interi ceduti in esclusiva all’agenzia, ma altrettanti custoditi gelosamente nella camera oscura sotterranea di via Rota al 60. Ci ripromettevamo di rivedere con calma quelle foto, molte delle quali davvero uniche. Purtroppo agli inizi di novembre ’76 ci pensò il Lambro a distruggere tutto il meglio di quel lavoro, vanificando ogni possibilità di recupero e di stampa. Il fiume, ingrossato dalle piogge, fuoriuscì dagli argini nel centro di Monza e di fatto caricò tutti di scarichi fognari in mezza città. L’acqua invase anche la camera oscura posta sotto il livello del suolo e tutto il materiale fotografico andò a farsi benedire. Un vero disastro, personalmente mai del tutto digerito, perché quelle immagini avrebbero testimoniato in modo eloquente uno dei maggiori disastri ecologici del nostro tempo. Mi consola il fatto che nella zona A, quella direttamente colpita dalla diossina, oggi c’è il Parco Naturale Bosco delle Querce, mentre non del tutto mi convince il previsto passaggio della Pedemontana laddove c’è ancora la terra contaminata.
Questo scrivevo un anno fa… Qualche giorno fa, ritornando dall’amico Giancarlo Marini la bella sorpresa che qualche negativo di quel triste evento è ancora recuperabile e magari si potrebbe anche pensare ad una piccola mostra per i 40 anni, se il materiale recuperato risulterà decente.
Carlo Gaeta