Tutto esaurito ieri, 22 marzo 2017, al Teatro Franco Parenti di via Pierlombardo a Milano per la prima di “Sogno d’Autunno”, in scena fino al 2 aprile 2017, di Jon Fosse, frutto della regia di Valerio Binasco, con una meravigliosa Giovanna Mezzogiorno, Michele Di Mauro, Milvia Marigliano, Nicola Pannelli e Teresa Saponangelo in una nuova produzione del Teatro Stabile di Torino – Teatro Nazionale.
Dopo il film del 2005, La Bestia nel Cuore, questa volta Valerio Binasco si trova a lavorare con la Mezzogiorno sui palchi di un teatro ed in qualità di regista.
Dal successo riscosso dalla prima al Franco Parenti, sembra proprio che Binasco sia riuscito a dar vita ad un testo drammatico di non facile interpretazione e di non semplice messa in scena, come quello del norvegese Fosse, tradotto in oltre 40 lingue.
Giovanna Mezzogiorno e Michele Di Mauro, una ex coppia giunta in passato alla deriva dei sentimenti, si ritrova, per opera del fato, sulla panchina di un cimitero. Lui, ormai sposato e padre di un figlio, lei ancora sola. Entrambi, però, si desiderano ancora, e forse non hanno mai smesso di sentirsi insieme.
A far da sfondo ai loro dialoghi, una scenografia semplice ma efficace. Sedie che fungono da tombe, con lumini e foto di immaginari defunti, vanno a comporre un cerchio che isola la scena, in mezzo ad esso la panchina dei due amanti e alle spalle una struttura che ricorda un mausoleo, pronta a cambiare durante lo spettacolo trasformando tempo e spazio in funzione del racconto.
Tra desideri, recriminazioni, parole urlate, sussurrate, la coppia si dichiara un amore che sa di sofferenza, paura, passione ma che ancora vive e grida dentro.
Un salto temporale, catapulta gli spettatori nella dimensione privata dell’uomo, quella della casa dei suoi genitori, in attesa che il figlio, con la nuova moglie, giunga, dopo anni di assenza, per presenziare al funerale della nonna.
Una cucina, dai mobili vecchi e semplici, ospita due figure.
La madre (Milva Marigliano), con i suo isterici e sofferti dialoghi, a tratti monologhi, poiché volti ad un figlio invisibile, che si anima tra alienanti ripetizioni e scongiuri, tra rassegnazione ed estrema disperazione, simboleggia la paura, la malinconia, la non accettazione del cambiamento, sia esso da trovarsi nella vita che scorre, sia esso negli eventi a farvi da cornice.
Il padre (Nicola Pannelli), remissivo, rassegnato, introverso e di poche parole, tutte spese perlopiù nell’intento di calmare la moglie, attento alle formalità, quasi riponendo in esse il magico potere di riuscire a sfuggire dalle sofferenze della vita, simboleggia la cecità volontaria, la rassegnazione e l’attaccamento alla superficie per non cadere negli abissi umani.
Una dimensione, questa, schiacciante, che giunge allo spettatore come un grande urlo, al quale volersi presto sottrarre, perciò riuscitissima.
L’incontro per il funerale, quello della nonna, che fa da sfondo a provocazioni, forti diverbi che sfociano in aperti conflitti, dialoghi pregni di risentimenti e dichiarati bisogni, incontri inaspettati, come quello con la ex moglie del protagonista (Teresa Saponangelo), che aprono altre porte e altrettanti temi.
Temi tutti umani, tutti respirabili dal pubblico che, sebbene con un certo impegno e una grande dose di empatia, non potrà che farli propri, costruendo sull’assenza di spiegazioni che nemmeno l’autore del testo da cui è tratto lo spettacolo ha voluto dare, la propria verità, riallacciandola ora a frammenti del proprio vissuto, riuscendo ora, forse i più abili e audaci, a legarla a riflessioni provenienti dall’immaginario e dal fantastico, così come gli stessi attori usano fare.
Le luci, sapientemente utilizzate, scandiscono gli spazi temporali, come fotografie, istantanee di tempi che scorrono ma che sempre rimarranno; una splendida alternanza di buio-luce, che si fa anche metafora degli opposti: vita-morte, essere-non essere, possesso-perdita, compagnia-solitudine, principio-fine, passato-futuro.
Passato, presente e futuro sono, si, differenziati da sguardi di luce e buio ma vivono all’unisono, mantenendo i loro confini labili, lasciando che si fondano in un vortice che dia vita a un altro tempo, non ancora scritto, nel quale, sebbene si cerchi di dare ordine, si può solo riuscire a essere,
Il tema della morte, come fine della vita, come perdita, abbandono metaforico, ricorre di continuo, così come il tema del distacco, della paura, della non accettazione, della memoria che impera sull’uomo, del senso di colpa e delle sue voragini capaci di inglobare chi ne fa arma e chi ne è offeso.
Gli attori non hanno gioco facile in questo spettacolo, nato da un testo così particolare, ma si destreggiano bene, tra detti e non detti, tra appena sussurrati e urlati, tra assenza e vita, finzione e verità, nella scena. Che poi, nel mondo della recitazione, si sa, perfino nella finzione la verità deve esistere.
Un profondo realismo invade la scena, anche nella sua accezione più grottesca, perché nessuna vita è così normale, ordinaria, seria e comune, se guardata dentro.
Con l’occasione, ricordiamo anche gli altri appuntamenti al Teatro Franco Parenti di Milano.
In scena, fino al 2 aprile, troviamo anche il pluripremiato “L’apparenza Inganna” di Thomas Bernhard per la regia di Federico Tiezzi, con l’eccezionale Sandro Lombardi che qui recita insieme a Massimo Verdastro.
Due fratelli, artisti in pensione, con un rapporto conflittuale e poggiante su un equilibrio paradossale. Karl, ancora in lutto per la perdita di sua moglie Mathilde, e Robert, anch’esso legatissimo a Mathilde, sono abituati a vedersi due volte a settimana, il martedì e il giovedì, senza nemmeno poi desiderarlo troppo intimamente.
Due personalità contrapposte. Karl, giocoliere di fama mondiale, showman che ha solcato grandi palchi, sagace e dall’atteggiamento aggressivo, con manie di controllo e piccoli riti ossessivi; Robert, attore, uomo fragile, insicuro, apparentemente remissivo e ipocondriaco che ancora desidera rivalersi sul tempo che scorre inarrestabile e finalmente riuscire a recitare il suo Re Lear.
Un nucleo comune: Mathilde, una donna che entrambi hanno amato, in un rapporto che appare a tratti chiaro, a tratti più fumoso.
Due atti, due stanze, le rispettive case dei fratelli. Vecchi mobili, divani troppo usati, fotografie sbiadite, a sottolineare il malinconico incedere della vita che non si può arrestare.
Un’alternanza di monologhi e dialoghi, ricchi di sarcasmo, cinismo, passione, disillusioni, trasporta lo spettatore in un ventimila leghe sotto gli animi umani lasciandogli scoprire quanto la finzione sia parte integrante dei rapporti e delle relazioni e quanto, anche di fronte a grandi differenze che appaiono assolute, ci siano dei ponti comuni a legare gli uomini, spesso costruiti su paure, speranze e sogni.
Uno spettacolo da andare a vedere, ben consapevoli che non è il colpo di scena a dover essere respirato ma il fondo di un caffè che la vita beve a sorsi aritmici.
E ancora, fino al 2 aprile, troviamo “Some Girls(s)”, tratto dal testo di Neil LaBute, con la regia di Marcello Cotugno, con Gabriele Russo, Valentina Acc, Bianca Nappi, Roberta Spagnuolo e Martina Galletta, in una produzione Fondazione Teatro Napoli – Teatro Bellini.
Una camera d’albergo e un uomo, Guy, quasi sposo, che, con la necessità di ripianare un tortuoso percorso sentimentale, giunto ormai al capolinea con l’imminente matrimonio, riunisce le sue ex per chiarire una volta per tutte le inevitabili incomprensioni che le storie si trascinano dietro una volta finite.
Si alternano così con il protagonista quattro donne, quattro universi femminili differenti.
Uno sguardo lucido e intenerito, una visione acuta delle dinamiche relazionali di ogni coppia. Una recitazione che porta in sé un realismo, quasi documentario, con incastri e tempi perfetti.
Il protagonista maschile appare come un adolescente mai cresciuto, che sembra uscire indenne da ogni incontro, sempre pronto a gareggiare nuovamente.
A far da sfondo l’analisi della società contemporanea, che non assume responsabilità e non regala certezze.
di Elizabeth Gaeta
TEATRO FRANCO PARENTI
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