Fondazione Prada di Milano (Largo Isarco 2) presenta dal 19 maggio al 31 dicembre 2016 l’esposizione “Kienholz: Five Car Stud“, a cura di Germano Celan, che racchiude una selezione di opere realizzate da Edward Keinholz e Nancy Reddin Kienholz, moglie dell’artista, tra le quali la storica installazione che dà il titolo alla mostra e che ne rappresenta proprio il fulcro.
Si attraversano gli spazi della Fondazione Prada con una curiosità quasi infantile, passo dopo passo, lasciandosi rapire dall’eleganza di questo spazio ricavato da una vecchia distilleria che conserva ancora il sapore del lavoro, protagonista al tempo.
Un design minimale, necessario per dare risalto alle opere d’arte che la Fondazione ospita costantemente, e si giunge al principio della mostra di Edward Kienholz: un ingresso semplice e sobrio, a celare la grandiosità di un artista che ha saputo rendere il concetto comprensibile a chiunque, grazie all’impatto emotivo, di cui ogni sua opera è pregna.
Stanza dopo stanza, le sue creazioni disegnano una linea guida nella mente dello spettatore, il sentiero di Hansel e Gretel che si dispiega nella forza di denunce sociali sempre di grande attualità, quali: la mercificazione della donna, del corpo umano in un discorso più ampio, lo sfruttamento sessuale e l’abuso del potere in esso, la discriminazione razziale che sfocia in violenza pura e che affonda radici più profonde nel sadismo fine a se stesso, la strumentalizzazione della religione che diventa istituzionale e non più spirituale, l’inganno ed il potere fuorviante dei media e del ciò che si dice.
Sembra incredibile ricordarsi che tutto ciò che si para davanti ai nostri occhi provenga dall’inutilità, da tutto quello a cui la gente ha saputo dire addio, senza troppi dubbi, abbandonandolo in una discarica di città, liberandosi finalmente del superfluo, del non più necessario.
“Mi piace Los Angeles. E’ facile…una città di queste dimensioni, dove la gente butta via così tanta roba, puoi prendere tutto quel che vuoi senza soldi…ovvio, se ci sai fare!” raccontava Kienholz, riferendosi al suo modo di fare arte, recuperando e barattando oggetti abbandonati e donandogli una nuova vita, diversa dalla precedente e con un forte messaggio.
Dopo aver toccato le mani e l’anima di Kienholz, infatti, il dimenticato, il sepolto, torna ad essere importante, ad occupare un posto d’onore nel mondo, fino a diventare fondamentale chiave di lettura dei retroscena dell’umanità.
E verrebbe da chiedersi: “Come ho potuto farne a meno fino ad ora?”.
Oggetti deformati, segati, con gambe di donna spalancate e assemblate ad essi, corpi intrisi di emozioni terrene, crocefissi ricavati dagli assi di carretti per bambini e, attaccate alle loro estremità, mani e piedi di bambolotti, automobili intere e sezionate con i fari puntati sulla verità, intere riproduzioni di scene di vita colme di simboli e significati.
Questa, e altra ancora, è l’arte che conduce, in un percorso in crescendo, all’attesa installazione: Five Car Stud, opera-nucleo che dà il titolo all’intera esposizione.
Si varca un’apertura e d’improvviso è notte, sotto i piedi si trova la ghiaia, a rendere ogni passo incerto.
Lo sguardo cade immediatamente sulla sconvolgente scena: cinque uomini bianchi che indossano maschere di Halloween stanno aggredendo un afroamericano.
L’uomo è steso a terra, immobilizzato dagli aggressori che gli bloccano le braccia, mentre uno di loro lo sta per evirare. Un altro uomo mascherato sorveglia la scena, imbracciando un fucile, mentre una donna, prima appartata con la vittima è obbligata ad assistere alla scena impotente.
Le uniche luci della stanza sono i fari delle automobili che accerchiano l’azione, rendendo ancora più drammatica la violenza.
Attira l’attenzione lo sguardo terrorizzato di un ragazzo, il giovane figlio di uno degli aggressori, chiuso in una macchina e obbligato anch’esso ad assistere all’inaudita violenza senza potersi in alcun modo sottrarre.
Il ragazzo afroamericano ha un doppio volto: uno rassegnato ed un altro segnato da una terribile smorfia di terrore e rabbia. Al posto del busto, un contenitore di benzina, nel quale galleggiano solo sei lettere: N I G G E R.
Tutto è in dimensione reale, la sensazione prepotente è quella di essere testimoni di un fatto reale e, se ci si lascia andare fino in fondo immergendosi completamente in quella notte, si avverte ogni emozione, da quella della vittima a quella, più truce, degli aggressori, fino a quella degli involontari spettatori.
Sembra quasi che da un momento all’altro possa uscire qualcuno da dietro il buio, che una risata sadica possa scoppiare dalla bocca di uno degli uomini o che un grido possa lacerare lo spazio.
Una potenza infinita, da sperimentare in pochi spettatori per volta; perfezione assoluta sarebbe riuscire ad entrare in quella stanza soli o al massimo in due.
Creata da Keinholz tra il 1969 e il 1972 ed esposta per la prima volta a Documenta 5 a Kassel, Five Car Stud riproduce in dimensioni reali una scena di violenza razziale considerata una delle più significative dall’artista americano e da lui definita come la rappresentazione che incarna il “peso di essere un americano”.
Five Car Stud, nonostante il clamore e l’attenzione della critica ottenuti sin dalla sua prima esposizione, è rimasta chiusa per ben quarant’anni nel deposito di un collezionista giapponese e solo tra il 2011 e il 2012 ha rivisto luce e ha ritrovato gli sguardi del pubblico, dopo il suo restauro, al County Museum of Art a Los Angeles e al Louisiana Museum of Modern Art in Danimarca.
Ogni concetto espresso dall’artista nelle sue opere sembra avere artigli per aggrapparsi all’emotività del pubblico che viene inevitabilmente catturato e spintovi dentro.
I suoi lavori sembrano dire “Ho guardato e ho visto. Lo devo esprimere, ad ogni costo, con ogni mezzo e senza curarmi troppo del giudizio che potreste averne guardandolo”.
Paiono nascere da una forte necessità interiore, da uno sguardo sul mondo vero, a tratti crudo, ma sempre intensamente vissuto.
Credo sia questa la molla in grado di scatenare così forti reazioni in chi guarda: quel bisogno che nasce da dentro e che esplode nell’opera d’arte. E pensare che Kienholz è stato anche centro di critiche di chi non ha saputo definire il suo lavoro arte, per mera incongruenza estetica rispetto al significato a cui poteva esser attribuita la parola in certi tempi, in certi luoghi, da certe menti, scarne di sentire.
Edward Keinholz (1927-1994) è un artista autodidatta cresciuto a Washington che nel 1957, a soli 30 anni, fonda la Ferus Gallery con Walter Hopps. Nel 1961, dopo la sua prima personale curata proprio da Hopps al Pasadena Art Museum in California, viene incluso con altri artisti della West Coast nella mostra curata da William Seitz “The Art of Assemblage” al MoMa di New York, nella quale è accostato a figure storiche come Picasso, Schwitters, Duchamp e Cornell. Grazie a questa esposizione ottiene un primo riconoscimento internazionale attirando l’attenzione di critici e curatori europei.
Fin dagli esordi utilizza un immaginario realistico, quotidiano e inequivocabile per creare “un’arte di repulsione”: “Keinholz non tende a sublimare le bassezze e la tragicità del vivere, le condizioni di solitudine e di trivialità, ma le usa come strumenti per far risplendere l’universo basso e popolare, dove il macilento e lo sporco, il perverso e il lurido, rappresentano una bellezza nuova e sorprendente” spiega Germano Celant.
Nel 1972 inizia il sodalizio con la moglie Nancy Reddin con cui Keinholz cofirmerà tutti i lavori realizzati da allora fino alla sua scomparsa nel 1994.
Da questa collaborazione nascono oggetti e installazioni che indagano il lato oscuro e patologico del modello culturale e sociale dell’America e dell’Occidente in generale.
Elizabeth Gaeta
Edward Kienholz – “FIVE CAR STUD”
dal 19 maggio al 31 dicembre 2016
FONDAZIONE PRADA
Largo Isarco, 2 – Milano (Mi)
Info
T +39 02 56 66 26 13
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